Il diritto al lavoro post trapianto

L’insorgere di una patologia che rende necessario il trapianto di un organo può comportare, nella maggior parte dei casi, nei soggetti trapiantati, una inabilità al lavoro che si svolgeva prima del trapianto, che può essere temporanea o definitiva e, in entrambi i casi, parziale o totale. Questo non deve significare necessariamente la fine dell’attività lavorativa, quanto piuttosto l’eventuale cambio o rimodulazione delle mansioni.

In ambito aziendale, la figura che ha l’obbligo di realizzare un servizio di sorveglianza sanitaria, effettuando i necessari accertamenti e visite mediche sui lavoratori è il medico competente. Si può trattare di visite preventive, periodiche, su richiesta del lavoratore, per cambio di mansione, per cessazione del rapporto o alla ripresa del lavoro. Al riguardo è indispensabile che il datore di lavoro si faccia carico della osservanza di tutte le norme relative alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, anche nei casi di attività a rischio minimo. In particolare, il Decreto Legislativo n. 81 del 09/04/2008 (aggiornato, da ultimo, dal Decreto Legislativo n. 101 del 31/07/2020), nei casi di esposizione ai rischi professionali indicati dalla normativa vigente, prevede l’esecuzione sia degli accertamenti sanitaripreventivi (per constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati), sia di quelli periodici (per controllare, nel tempo, lo stato di salute dei lavoratori) e ne indica la finalità: la valutazione dell’idoneità del lavoratore alla mansione specifica. Entrambe le tipologie di accertamento, infatti, sono volte a verificare la presenza o la eventuale insorgenza di condizioni di salute che possano precludere lo svolgimento di una o più mansioni cui il lavoratore è addetto. Quando il medico competente lo ritenga necessario ai fini della formulazione del giudizio di idoneità, può richiedere l’esecuzione di esami clinicie di indagini diagnostiche, oltre che avvalersi della collaborazione di medici specialisti (scelti dal datore di lavoro, che ne sopporta gli oneri).

Tale attività, in caso di esito positivo, sfocia nella produzione del certificato di idoneità.

Premessi questi cenni sull’attività di sorveglianza sanitaria da realizzarsi all’interno dei luoghi di lavoro, in seguito, tratteremo delle conseguenze che possono derivare una volta che il medico competente abbia rilevato una inidoneità al lavoro a carico di un lavoratore trapiantato o, anche prima della effettuazione del trapianto, in quanto affetto da una patologia che renda necessario tale intervento.

 Sul trapianto d’organo, oltre agli aspetti medico-sanitari, vi sono profili di tutela sociale e previdenziale dei pazienti, in relazione alla possibilità di svolgere attività lavorativa. Il sistema nazionale sanitario, tramite appositi protocolli operativi, prevede misure di intervento e protezione sociale, nel caso di cessazione obbligata e anticipata della vita lavorativa, attraverso cui si garantisce l’accesso a pensioni e/o sussidi economici. Ci sono norme che riguardano le ipotesi di sospensione totale o parziale della prestazione lavorativa, con relativa temporanea integrazione dei trattamenti retributivi e contributivi. In analoga maniera hanno operato le parti sociali attraverso la stipula di contratti collettivi nazionali, che disciplinano tali aspetti. Ad esempio, alcune norme che prevedono che, in caso di patologie che richiedano la sottoposizione del lavoratore a terapie salvavita,è prevista anche l’esclusione dall’obbligo del rispetto delle fasce orariedi reperibilità per la possibile visita fiscale, che potrà essere eseguita solo previo accordo con il lavoratore. E ancora, le lavoratrici ed i lavoratori invalidi civili, ai quali sia stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%,possono fruire, nel corso di ogni anno, dietro presentazione di idonea documentazione, di un congedo per cure per un periodo non superiore a 30 giorni a totale carico del datore di lavoro (art. 7, Decreto Legislativo 18/07/2011, n. 119).

È d’obbligo precisare che la condizione del soggetto sottoposto a trapianto non comporta, in automatico, uno stato di grave menomazione. Ogni singolo caso, infatti, deve essere considerato in rapporto alla sintomatologia presente ed analizzato in riferimento ad una condizione sia di invalidità, che di residua capacità lavorativa della persona.

Presso i centri medico-legali dell’Inps, dell’Inail e delle Ausl sono istituite apposite Commissioni chiamate ad esprimere un giudizio tecnico sulla effettiva capacità lavorativa delle persone trapiantate, nonché sul grado di eventuale compromissione della stessa.

Il principio posto alla base del percorso di valutazione è che, in conformità a quanto sancito dall’art. 4 della Costituzione, occorre individuare e accertare quali attività il lavoratore può continuare a svolgere alla luce di una sopraggiunta invalidità e non quali attività non possono più essere prese in carico in valore assoluto.

La differenza è sostanziale e riflette un valore cardine: il lavoro è un diritto e si ha diritto a lavorare, nonostante l’invalidità e le ripercussioni che la patologia può avere sullo svolgimento dell’attività lavorativa.

Per poter consentire un reinserimento lavorativo del lavoratore trapiantato, occorre un’accurata conoscenza della sua storia clinica ed un esame puntuale della documentazione medica, finalizzati a:

  • inquadrare quale tipo di attività professionale svolgeva la persona prima del trapianto;
  • valutare se la funzionalità dell’organo trapiantato impatta sullo svolgimento del lavoro;
  • valutare l’impegno energetico richiesto dal lavoro abitualmente svolto o da eventuali occupazioni adeguate al profilo ed alle attitudini del soggetto, compreso il ritmo produttivo necessario;
  • verificare l’efficienza psico-fisica da utilizzare in senso produttivo.

La valutazione dell’invalidità lavorativa dipende, dunque, in estrema sintesi, dalla sussistenza di una compatibilità trapianto-lavoro. Il reinserimento lavorativo presenta delle asperità, in quanto, spesso, il lavoratore trapiantato è costretto ad abbandonare il mondo del lavoro già dall’insorgere della propria malattia. Già prima dell’intervento, il tipo di attività svolta condiziona la vita lavorativa del soggetto, da un punto di vista della fatica psico-fisica e della gestione dello stress lavoro-correlato. A maggior ragione, la ripresa del lavoro dopo un trapianto deve essere garantita alla luce anche della maggiore o minore rilevanza delle limitazioni esistenti rispetto allo svolgimento delle mansioni di lavoro ed al maggior tasso di assenze dovuto ai tempi di ripresa e di gestione del post-operazione.

In ambito previdenziale, poi, viene valutata l’esistenza o meno, oltre un certo limite, di una riduzione della capacità lavorativa del soggetto trapiantato, intesa come efficienza psico-fisica da valutarsi rispetto alle concrete possibilità occupazionali a cui egli può realisticamente aspirare, senza rischio per la propria salute.

Claudio Paolini