Inidoneità al lavoro e licenziamento: i diritti del paziente e dell'azienda a confronto

Avvocato Claudio Paolini

Abbiamo visto, in precedenza, che, qualora il medico competente abbia accertato la inidoneità del lavoratore alla sua mansione specifica di assegnazione, causata dalle sue condizioni di salute, il datore di lavoro è tenuto ad assegnarlo a mansioni a questa equivalenti. Qualora queste non siano presenti nel contesto aziendale, il nostro ordinamento, al fine di preservare al massimo grado il posto di lavoro del dipendente dichiarato inidoneo, prevede che egli possa essere assegnato anche a mansioni inferiori (demansionamento), a condizione che esse siano compatibili con le sue condizioni di salute.

Va evidenziato, però, che la disciplina di legge prevede che il datore debba procedere in tal modo, “ove possibile”. Ciò significa che, qualora, per ragioni oggettive, attinenti alla organizzazione aziendale, non sia possibile neppure procedere al demansionamento, la sopravvenuta inidoneità del lavoratore produce conseguenze sulla prosecuzione del rapporto di lavoro, comportandone la cessazione. In particolare, in questa circostanza, si può giungere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per impossibilità sopravventa della prestazione lavorativa, ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604 del 15 luglio 1966. Tale licenziamento è definito “oggettivo”, in quanto non trova la propria causa in un comportamento del lavoratore contrario alle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro (e, quindi, non ha carattere disciplinare), bensì dipende da una sua situazione soggettiva (la inidoneità fisica o psichica sopravvenuta), che, riducendone la capacità lavorativa, si ripercuote – su un piano, appunto, oggettivo – sulla attività aziendale e sulla organizzazione del lavoro.

Perché tale licenziamento sia legittimo, devono sussistere le seguenti condizioni.

  • stato di malattia, tale da non consentire una prognosi definitiva di durata (questa situazione è diversa da quella della malattia di carattere temporaneo, che resta circoscritta nel periodo temporale del comporto);
  • assenza di un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle prestazioni, anche ridotte, del lavoratore;
  • impossibilità di assegnare il dipendente ad altre mansioni: il ricollocamento del lavoratore, come vedremo, deve avvenire senza che vi sia la necessità di imporre al datore di lavoro modifiche dell’assetto organizzativo dell’azienda.

È importante ribadire che non si può legittimamente ricorrere al licenziamento in maniera automatica, ossia per il solo fatto che è stata accertata la inidoneità del dipendente. Con la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, dovrà adempiere al cosiddetto . “obbligo di repéchage”. In altri termini, il licenziamento potrà essere considerato legittimo solo qualora il datore, in sede di vertenza, sia in grado di fornire la prova della impossibilità di ricollocare proficuamente il dipendente, assegnandogli mansioni diverse da quelle attualmente svolte, compatibili con le sue residue capacità lavorative, pena la nullità del licenziamento stesso. Questo obbligo non è previsto espressamente da nessuna norma, ma è stato individuato e definito dalla giurisprudenza. Esso trova il suo fondamento nella tutela costituzionale del lavoro e nella conseguente necessità che la scelta datoriale di licenziare il lavoratore divenuto inidoneo non possa essere dettata da scopi espulsivi, legati alla persona del dipendente (divieto del licenziamento discriminatorio).

Il licenziamento, quindi, deve – e può – rappresentare l’ultima ed estrema misura, da adottarsi solo quando non esistono alternative che consentano all’imprenditore di preservare il posto di lavoro del dipendente, in una modalità che deve essere compatibile, al tempo stesso, con la sua salute e anche con la organizzazione aziendale esistente. Con la sentenza n. 26675 del 2018, la Cassazione, a fronte di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato per sopravvenuta inidoneità fisica della dipendente, senza avere effettuato il doveroso tentativo di repéchage, ha disposto la reintegrazione di questa nel posto di lavoro.

Da quanto sinora esposto, si comprende quanto la tematica in esame sia particolarmente significativa per i lavoratori affetti da una patologia di gravità tale da rendere necessario un trapianto d’organo. In tali casi, infatti, può realizzarsi, in tutta la sua ampiezza, la problematica correlata alla sopravvenuta inidoneità alla mansione specifica.

Nel caso in cui ci si trovi costretti ad impugnare, in sede giudiziale, un licenziamento per inidoneità fisica è importante sapere che, nel nostro ordinamento, non esiste alcun dovere del datore di lavoro di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda, al fine di ricollocare utilmente il dipendente. I criteri di gestione dell’impresa e della organizzazione del lavoro, infatti, appartengono alla discrezionalità dell’imprenditore e sono insindacabili anche da parte del giudice. Il magistrato, considerata la residua capacità di lavoro del dipendente e tenuto conto della organizzazione dell’azienda, come definita insindacabilmente dal datore di lavoro, dovrà valutare se persiste un interesse di quest’ultimo alla prestazione lavorativa. In questo ambito vi è la necessità di bilanciare la tutela di diritti ed interessi contrapposti, che hanno tutti rilevanza costituzionale: da un lato il diritto al lavoro ed alla sua conservazione, alla retribuzione ed alla salute del dipendente (artt. 4, 32 e 36 Cost.), dall’altro la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore (art. 41 Cost.). Il fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è costituito proprio dall’art. 41 Cost. In applicazione di questo principio, in sintesi, quando sussiste un contrasto tra l’interesse del dipendente alla conservazione del posto di lavoro e quello dell’imprenditore a non avvalersi più di risorse che non siano funzionali alle esigenze dell’impresa, prevale il secondo.

Sul piano pratico, ciò comporta che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale mansione, ad attività diverse può essere legittimamente rifiutata dall’imprenditore, qualora comporti aggravi organizzativi a carico dell’azienda. Ad esempio, il datore di lavoro non potrà essere obbligato ad assegnare a mansioni diverse, seppur esistenti nell’ambito dell’azienda, il dipendente dichiarato inidoneo alla propria mansione, qualora questa assegnazione, per essere realizzata, comporti il trasferimento di altri lavoratori (o modifiche peggiorative della loro posizione di lavoro) o alterazioni dell’organigramma aziendale. Una volta rilevata la inidoneità del lavoratore, quindi, il datore di lavoro soddisferà l’obbligo di provare la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento – impostogli dall’art. 5, della Legge n. 604/1966 – dimostrando che, nell’ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un impiego proficuo di questo lavoratore non è possibile o, comunque, non è compatibile con il buon andamento dell’impresa. Quest’ultimo potrà fornire una prova contraria, indicando, in maniera specifica, ad esempio, quali siano le mansioni esistenti in quel dato contesto aziendale, da lui effettivamente esercitabili e dimostrando anche la sua idoneità fisica allo svolgimento delle stesse.

Claudio Paolini